Da quest’anno, visto che i figli hanno raggiunto un’età decente per poter apprezzare tutti un luogo nuovo quando ci andiamo, abbiamo prenotato una serie di fine settimana in giro per l’Europa. Siamo stati a Barcellona, andremo a breve a Vienna, saremo a Parigi in primavera. Sentendo i tg, vedendo i giornali che girano per casa, ascoltando la radio, la mia figlia di mezzo (Elena, 9 anni), mi ha detto che ha paura.
Le ho detto che è normale averne, non bisogna vergognarsene. Ma che da un punto di vista puramente statistico la possibilità di capitare in mezzo ad un attacco terroristico in una capitale europea e rimanerne vittime corrisponde più o meno a quella di morire per un pezzo di cornicione o un vaso che cade da un palazzo e ci prende in testa: “E che fai – le ho detto – smetti di camminare per strada?”. Forse non è matematicamente correttissimo, ma il senso è chiaro. Quello che davvero ci spaventa, certo, è che un cornicione che cade è una fatalità, mentre qua parliamo di uomini che volutamente uccidono altri uomini, ma i livelli di rischio non sono molto distanti. Quando qualcuno si fa esplodere in una metropolitana, come a Madrid o Londra, devi avere la “sfortuna” di trovarti esattamente in quel vagone, di quel convoglio, in quel preciso momento della giornata: quante storie abbiamo sentito, in queste ultime ore, di persone che si sono salvate perché al Petit Cambodge non c’era posto o perché, pur apprezzandoli, non sapevano che al Bataclan c’erano gli Eagles of the Death Metal in concerto.
Ecco, parlando con Elena, così come parlando due settimane fa con i miei genitori che avevano prenotato un volo per Sharm el Sheik, mi sono tranquillizzato anche io e mi sono detto che, nella mia visione (sbagliata quanto si vuole) il modo corretto di combattere il terrorismo per una persona normale, che non ha responsabilità di Governo o incarichi pubblici e che non lavora nelle forze di sicurezza o di polizia, è esattamente questo: pur cosciente del fatto che c’è una nuova minaccia, vado avanti normalmente, non ho intenzione di farmi influenzare o di modificare i miei comportamenti sulla base delle stragi di Parigi, così come non l’ho fatto dopo Londra e Madrid. Per essere più chiari: il tentativo di modificare il mio stile di vita, vero obiettivo dei terroristi, non avrà la meglio.
Questo è il primo obiettivo dei terroristi – di tutti i terroristi, in tutto il mondo – e so che in questo modo posso far sì che non lo raggiungano. Ce ne sono altri, più politici, sui quali si sta aprendo la discussione in queste ore che sono specifici di questo terrorismo.
Il primo è il grande tema dello scontro di civiltà. Su questo ci vuole un po’ di chiarezza: lo scopo di Daesh, come di Al Qaeda prima, è esattamente quello di generare la sensazione che questo scontro sia in atto o inevitabile. Per quanto qualcuno possa pensare (e siamo nell’ambito di opinioni, quindi lecite, seppur smentite dalla stragrande maggioranza degli 1,8 miliardi di musulmani del pianeta che vivono in pace) che l’Islam sia una religione che inevitabilmente porta al conflitto, invito a riflettere sul fatto che, alimentando questo scontro, si consente all’autoproclamato Califfato di raggiungere il suo obiettivo, primariamente quello di aumentare il consenso tra i musulmani d’Europa: le storie dei terroristi di casa nostra sono spesso storie di emarginazione, di assenza di cultura, di menti fragili plasmate da tagliagole senza scrupoli. Prendersela con l’Islam vuol dire gettare sempre più persone tra le braccia di costoro. Questo non è buonismo, perché non sto dicendo che la reazione, magari anche militare, non debba o possa esserci, ma realismo. Quanta cattiveria generano, nella nostra vita personale, i comportamenti cattivi nei nostri confronti o quelli nostri nei confronti di altri?
Il terzo obiettivo di questo specifico tipo di terroristi è fermare il flusso di profughi verso l’Europa. E’ un obiettivo enunciato più volte: Daesh qualifica i profughi come “peccatori”. Non credo che sia un caso il fatto che questo attacco sia giunto a poche ore dalla conclusione del vertice tra l’Europa e i Paesi africani che si è svolto a Malta. Fuori dalle considerazioni di pura politica interna e di consenso è sempre il realismo che ci dovrebbe suggerire che la nostra politica nei confronti dei profughi non dovrebbe virare verso una chiusura dei confini e verso il rigetto delle esigenze di chi fugge dalla guerra. Perché la non accoglienza genera clandestinità, intolleranza, emarginazione e infine proseliti per chi ci minaccia.